giovedì 21 giugno 2012

Storia di abbandoni.

Le storie più tristi sono quelle in cui le persone ti abbandonano e tu ti inventi mille modi per farle tornare, ma loro ti abbandonano lo stesso.
La nostra storia era un intreccio di abbandoni e di sofferenza. Di belle parole, di litigi inevitabili. Di chiamate perse e cellulari spenti. Troppi impegni quotidiani.
Fruscìo di pagine strappate dal giornale, i traslochi dall’altra parte della città per evitarsi.
La nostra era una storia di distanze infinite e intangibili. Passi impercebili prodotti all’unisono, stanze spoglie e corridoi interminabili.
Un patibolo il nostro, la nostra rampa di lancio verso il nulla.
Non fidarsi l’uno dell’altro era la nostra storia. Urlarsi contro e poi baciarsi.
Dirci che non è successo niente, mentre nella nostra mente è successo il finimondo. Siamo stati percossi dai fulmini, dalle emozioni ancora impacchettate nelle scatole, e isolate per bene dallo scotch. Ci sono passati davanti i nostri ricordi in 3D, li abbiamo toccati e ci siamo finiti dentro, era il cast del nostro film ma non ci ricordavamo più le battute. Abbiamo rivissuto ogni giornata, ogni ombra disegnata sul muro, ogni pozzanghera che abbiamo evitato prima che il solito pilota di formula uno urbano ci bagnasse da capo a piedi. Cuori compresi. Quelli ci mettono tanto ad asciugare, così li abbiamo stesi sul terrazzo e abbiamo aspettato che facesse buio perché la notte ci poteva eludere.
La notte unisce, e la notte divide. Ci siamo spartiti un metro quadrato di pavimento, abbiamo dormito male con un occhio sempre vigile e abbiamo finto di non riuscire a prender sonno e di contare le pecore. …150 pecore dopo ci siamo ritrovati occhi negli occhi. Rabbia contro rabbia. Abbiamo digrignato i denti, eravamo lupi famelici. Dopodiché hanno fanno effetto i sedativi che ci eravamo piantati nella schiena a tradimento. Ci ha risvegliati il subconscio insieme al sole a mattina inoltrata. I nostri cuori erano stinti ma quantomeno asciutti, e noi eravamo ancora attontiti dal liquido che ci circolava nel sangue e così ce li siamo scambiati. Poi ce ne siamo andati sbattendo la porta e abbiamo preso due metropolitane differenti. Così, la nostra storia di abbandoni si è conclusa. Con due cuori che respiravano l’essenza sbagliata, ma che in realtà è sempre stata il succo della nostra esistenza.

The love that left you to die.

Prima di conoscerti, non ne sapevo niente di tutto questo.
Avevo ascoltato l’amore attraverso le parole di altri. L’avevo compreso e studiato, immaginato.
Prima di conoscerti non ne volevo sapere di più. Mi bastava l’immagine nella mia testa.
E adesso quasi ti imploro, di riportarlo in vita questo nostro amore.
Che si è fortificato, distrutto e ricostruito giorno dopo giorno.
Che lascia l’amaro in bocca, che è vuoto di pieni e pieno di vuoti.
Ma di vuoti che traboccano fino all’orlo di parole sussurrate, di sensazioni mischiate a paure e silenzi. Di vuoti abitati da emozioni negate. Perché negando agli altri finiamo sempre per negare anche a noi stessi.
Forse era meglio non saperne nulla. Accantonare tutto al primo sintomo di cedimento. Avrei potuto smettere.
Forse era meglio respingerti, come faccio da sempre inevitabilmente con le persone. Avrei potuto sparire.
Forse era meglio non cercare una possibilità di dimostrarti che ne vale la pena, sempre se valeva dopotutto. Avrei potuto allontanarmi in tempo.
Ma ci si brucia a stare appresso al fuoco, lo sai meglio di me.
E tu sei un fuoco che a volte è possente, altre invece è flebile eppure difficilmente si spegne, sulla mia pelle. Volevo dirti che ci ho provato così come a spegnerlo così come a alimentarlo.
Ma la verità è che non sono abbastanza per essere il fiammifero e non sono così forte da essere il fiume.
Anche adesso che ne so qualcosa di tutto questo, non riesco a dare l’impressione che vorrei. E me ne rendo conto.
Per questo te l’ho scritto, così come ora, anche in passato. Perché avevo bisogno di farti sapere delle cose che probabilmente non sarei mai riuscita a dire o a dimostrare.
Ora che tutto sta andando nella direzione opposta e che non siamo più cosi ‘vicini’ come prima, ora, volevo che almeno ti arrivassero alcune parole.
Grazie, perché sei stato sempre gentile e paziente con me. Perché hai saputo ascoltare. Perché hai saputo vedere oltre le apparenze. E perché sei rimasto.
Grazie, perché mi hai fatta stare bene sempre e sentire come se valessi finalmente qualcosa.
Grazie, perché l’avrei dovuta usare più spesso questa parola e perché meriti di sentirtela dire.
Sei una bella persona, te l’ho anche già detto, ma tienilo a mente.
È tutto. E non preoccuparti, ho smesso di scrivere, ho smesso di parlare, a meno che tu non voglia il contrario non ho più voce in capitolo.

Amori virtuali.

A volte è quando conosci una persona tramite internet, che te ne innamori realmente. Perché lì non conta tanto l’aspetto fisico, quanto le parole. È un guardarsi dentro a vicenda. Scoprire l’anima a poco a poco. È un innamorarsi dall’interno, ancor prima che dall’esterno.
Ed io mi ricordo, quel giorno in particolare. Quello che si facevano le quattro del mattino a raccontarsi, a disegnare dettagli inutili.
Quello che, poi ti arrivano messaggi come quello che arrivò a me. Pieni di parole meravigliose.
Del tipo: ‘Aspetta, ti faccio una sorpresa.’
Lì sì che si innamora, delle persone giuste, per quanto lontane o vicine che siano. E rimpiango di averlo cancellato alla fine, quel messaggio. Perché ricordo a malapena le parole ora ed è tutto sfocato, sebbene estremamente incantevole. Non si può tornare indietro, purtroppo. Dopo essersi guardati anche fuori, dopo aver ascoltato i battiti, dopo aver sospirato, dopo essersi tesi la mano e dopo averla lasciata.
Eravamo solamente due persone che cercavano di amarsi e che per via delle coincidenze della vita non ce l’hanno fatta.